Segui la freccia / A tu per tu con il Museo civico e il Parco archeologico di Travo

Disegnare una freccia è un gioco da bambini, non occorre certo essere degli artisti. Ma se si tratta di farne una vera, usando le proprie mani, il discorso cambia del tutto. Perché un proiettile da scagliare con l’arco è un vero e proprio prodigio dell’aerodinamica e la sua messa a punto è il frutto di una sperimentazione che ha impegnato a lungo i nostri antenati preistorici, prova dopo prova, fino a ottenere il risultato voluto.
Lo si può comprendere al volo guardando da vicino questa punta in selce, una delle tante ritrovate nei pressi di Travo, in Val Trebbia, dove in epoca neolitica, circa seimila anni fa, sorgeva un villaggio che oggi è stato ricostruito sotto forma di parco archeologico.

Foto > Museo civico e Parco archeologico di Travo - Punta di freccia foliata in selce, Neolitico recente (4400-4000 avanti Cristo)

La bellezza della forma e l'eleganza del colore, però, non devono trarre in inganno. Questa cuspide era il cuore affilato di un’arma letale, che nella caccia agli animali era capace di ottenere, in un colpo solo, due effetti balistici micidiali: rallentare o persino fermare la corsa della preda con lo shock della percussione, ma anche ledere i suoi organi interni, fino a causarne la morte per emorragia.

Le punte da freccia venivano ottenute scheggiando la pietra fino a sagomare due tipi di profilo: quello che si vede in questo caso, a forma romboidale, e quello ad amigdala, ossia a forma di mandorla, dove nella parte bassa mancava il peduncolo che qui, invece, era destinato all’inserimento nell’asta di legno.
In entrambi i casi il fissaggio tra punta e asta veniva realizzato con colla e filamenti di origine animale o vegetale, ed era essenziale che l'assemblaggio fosse ben fatto, altrimenti l’insieme si sarebbe scomposto nell’impatto, soprattutto colpendo bersagli protetti da pellicce folte, come a quei tempi accadeva spesso.

Ma torniamo alla bellezza dell’oggetto, astraendo per un attimo dalla sua funzione pratica. Verrebbe da dire che “gli manca solo la parola”, tanto è perfetto nella sua essenzialità. E l’espressione non sarebbe fuori luogo, perché frecce e parole, in effetti, sono legate da una parentela affascinante.
Secondo gli studiosi della preistoria, infatti, nel corso del tempo le capacità specificamente umane di sviluppare il linguaggio, di afferrare con le mani gli oggetti e di modificarli a proprio uso, sono andate di pari passo e si sono alimentate a vicenda, utilizzando le stesse aree del cervello, ma anche potenziandole e connettendole.

Se questa ipotesi è vera, l’evoluzione degli schemi motori (dalla conquista della stazione eretta alla presa di precisione, fino al lancio di proiettili per procacciarsi il cibo) avrebbe dunque innescato l’evoluzione degli schemi espressivi e ne sarebbe stata a sua volta innescata, aprendo la strada che ha portato i Sapiens fino alle prime creazioni artistiche.
Per il cacciatore di Travo, insomma, questa punta doveva valere davvero più di mille parole. Se con la freccia scoccata dal suo arco provava a colpire un bersaglio lontano, con i suoni emessi dalla bocca poteva comunicare il suo primo pensiero ai compagni lì vicino: “Chissà se stavolta labbiamo beccato?”.

Per saperne di più, e progettare una visita al Museo civico e Parco archeologico di Travo, c’è PatER - Catalogo regionale del Patrimonio culturale.


Foto > Museo civico e Parco archeologico di Travo - Punta di freccia foliata in selce, Neolitico recente (4400-4000 avanti Cristo)


L’autore del testo ha verificato per quanto possibile le fonti documentarie e i crediti iconografici utilizzati; eventuali modifiche e integrazioni possono essere richieste contattandolo:

Vittorio Ferorelli

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