Anatomia di un restauro

il misterioso caso di Ravenna

Pannello

 Il rientro della tavola a Ravenna, ceduta in deposito agli inizi del Novecento grazie ad un accordo siglato Corrado Ricci e Giulio Cantalamessa, vale a dire due dei padri fondatori del sistema di tutela dello stato moderno, si presenta da subito come caso museografico per la complessità delle vicende che la riguardano e per le lacune; documentarie e pittoriche; che oscurano molta parte della sua storia, oltre che del dipinto. Vale qualche spiegazione un titolo altrimenti indulgente ai tasti di quella spettacolarizzazione cui ci ha abituato la moderna expografia, espressione, come è ovvio, dell’ansia da manufatto che caratterizza la nostra civiltà, acutamente individuata e tanto efficacemente restituita da Cristina Acidini Luchinat in un contributo per il Salone del restauro del 2001, “in tempi come i nostri, in cui le conquiste della comunicazione sembrano rendere tutto accessibile a tutti per vie virtuali, ecco che la materia, su cui l’artefice ha lasciato non solo il segno intellettuale ma anche le impronte digitali, vive una stagione di straordinaria centralità, quasi un culto che ha i suoi templi nelle raccolte artistiche e i suoi fedeli nei visitatori che vi si recano come in un moderno, laico pellegrinaggio” .

L’atto di restituzione si ispira ai principi di tutela e si pone come intervento specialmente museografico. Con queste premesse la Soprintendenza speciale per il patrimonio storico artistico ed etnoantropologico e per il polo museale della città di Venezia e dei comuni della gronda lagunare agli inizi del 2005 notifica al Museo d’arte della città di Ravenna che “Per quanto riguarda il dipinto del Rondinelli in deposito a queste Gallerie dell’Accademia, … può rientrare in qualsiasi momento al museo di appartenenza” . Prima della fine dell’anno la tavola, una Madonna con il Bambino in trono fra una santa martire e san Sebastiano, viene presa in carico dal museo ravennate . Il dipinto arriva in condizioni di evidente sofferenza. La struttura è fortemente indebolita e i distacchi di pellicola pittorica hanno reso lacunosa la regione inferiore della tavola. Praticata una terapia d’urgenza con velinatura per assicurare le zone esposte a sollevamenti di colore dopo il trasporto e, in via preventiva, alla luce degli inevitabili rischi dovuti al mutato contesto ambientale, si è valutato di costituire un gruppo di lavoro che si occupasse della cura della tavola secondo una metodologia che ponesse al centro di ogni riflessione il rispetto dell’integrità estetica parimenti a quella storica.
Le fasi operative dovevano essere articolate, come nella valutazione del quadro clinico di un paziente, secondo le modalità consolidate del restauro moderno italiano, ovvero attraverso l’anamnesi, con istruttoria sulla storia pregressa del dipinto e dello stato di salute, la diagnostica, finalizzata ad accertare le modalità di realizzazione e le quote compositive, la progettazione dell’intervento sulla base delle conoscenze fornite dallo storico dell’arte aggiornate alle problematiche emerse in corso di accertamento, infine l’esecuzione del restauro affiancato dal monitoraggio dei passaggi operativi e dalla continua valutazione dei referti allo scopo di prevenire ogni operazione che non trovasse conforto alla luce della verifica.
 
Madonna con bambinoNel 2006 il Museo propone il restauro al Servizio musei e beni culturali dell’Istituto beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna per il finanziamento, in seguito erogato con approvazione del piano museale 2006 della L.R. 24 marzo 2000, n. 18, “Norme in materia di biblioteche, archivi storici, musei e beni culturali”: scatta così l’operazione “pala di Cervia”.
La direzione tecnico-scientifica è affidata a Nadia Ceroni, per il Museo, con la collaborazione di Lidia Bortolotti per Istituto. La definizione dell’équipe si precisa con il coinvolgimento dell’Università di Bologna con sede a Ravenna, ovvero con la Facoltà di Conservazione per i beni culturali, per lo studio del dipinto, e con la Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali, corso di laurea in Tecnologie per la conservazione e il restauro dei beni culturali per la diagnostica. E mentre il Museo, di concerto con la Soprintendenza veneziana, si avvia a istruire il fascicolo sulla storia del dipinto grazie allo spoglio dei rispettivi archivi, Istituto incarica Marco Sarti di un rapporto funzionale e propedeutico alla progettazione dell’intervento di restauro che nel mese di luglio del 2006 sarebbe stato affidato al Laboratorio del restauro di Ravenna.

La collaborazione con l’Università, che ha voluto cogliere le opportunità di questa iniziativa, è stata attivata nell’ambito delle buone relazioni che consentono di trovare nei progetti condivisi un ambito di mediazione fra la più avanzata ricerca e il museo, luogo di declinazione della teoria in prassi e di traduzione dell’invisibile nel contingente organico, vivo e visibile, della materia con cui un’opera è indissolubilmente implicata. Stefano Tumidei, al cui magistero ravennate il Museo ha fatto riferimento per il contributo rilevantissimo offerto alla conoscenza delle vicende artistiche in Romagna nell’età di Melozzo e di Palmezzano, ha avanzato un’ipotesi per precisare attribuzione e provenienza affidando le ricerche, in quello stesso anno, a Maria Manuela Malaigia per la tesi di laurea specialistica .

Con il Polo scientifico-didattico di Ravenna il Museo, che nel 2004 aveva siglato un protocollo d’intesa per programmi di reciproco interesse , avvia un rapporto di collaborazione per le indagini preliminari. Il piano degli accertamenti istruito da Rocco Mazzeo e dalla sua équipe , prevede, in prima istanza, l’utilizzo di tecniche non invasive come il programma Imaging multispettrale in grado di acquisire contemporaneamente immagini in otto diverse modalità di ripresa  per formulare un quadro circostanziato sulle condizioni di conservazione dell’opera, sulla stesura pittorica e sui tracciati di preparazione. In particolare la ripresa in fluorescenza ai raggi X permette di effettuare una mappatura dei materiali grazie alla risposta individuale delle diverse componenti chimiche. Alla prima ricognizione non invasiva, segue l’operazione, questa volta invasiva e perciò altamente selettiva, di microprelievi per l’accertamento dei pigmenti di superficie individuati con elaborazione in falso colore. Dai campioni sottoposti a microscopia ottica si assumono informazioni sulla tecnica pittorica e sulle caratteristiche organiche delle ridipinture; dalla microscopia FT-IR si ricavano importanti indicazioni sulla ricetta degli strati preparatori e su quelli pittorici; infine, in sede di pirolisi-gascromatografica, si acquisiscono notizie sul legante e sulle componenti organiche.

Le ricerche condotte da Nadia Ceroni e Maria Manuela Malaigia, con il supporto di Enrico Noè per le fonti archivistiche veneziane, ora pubblicate nella seconda uscita della collana “Pagine del mar” dedicata alla presentazione dei lavori di restauro, hanno consentito di chiarire le circostanze dell’ingresso della tavola presso il museo ravennate, quindi presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia .

Nel 1894 la Congregazione di Carità di Cervia, proprietaria del dipinto, si rivolge al prefetto di Ravenna per chiedere una perizia in previsione della vendita . L’incarico viene affidato a Corrado Ricci che da giugno dell’anno precedente era impegnato nel riordino della R.Galleria di Parma per interessamento di Adolfo Venturi. Dal verbale si apprende che Ricci visita a Cervia il quadro posseduto dall’Amministrazione dell’Ospedale. “È opera sicura di Nicolò Rondinelli, ma ridotta in uno stato deplorevole. Manca a destra parte della tavola cosicché la figura di San Sebastiano è mozza di una spalla, d’un braccio, e di una gran parte della gamba. La figurina opposta della santa è tutta ridipinta. Restano quindi intatte le sole figure della Madonna e del Bambino, che possono salvarsi riunendo (?) il quadro” . L’occhio del connoisseur non esita ad assegnarla alla mano di Rondinelli riconoscendo, si comprende bene, nella melanconica dedizione della Madonna verso il Bambino, come il presentimento di un’eredità lagunare e tutta belliniana. Quanto alle condizioni di conservazione, il termine “deplorevole” non concede margine al benché minimo dubbio: il riscontro di un’altra figura sotto la santa, ancora visibile sottotraccia, è perciò attestata dallo stesso Ricci. La mancanza di un’intera tavola lungo la verticale destra dell’assito mutila san Sebastiano mutilando, con lui, anche l’unità compositiva con conseguente sbilanciamento nel ritmo circolare della simmetria. Acquisita la perizia, l’Ospedale di Cervia, in difficoltà per l’acquisto dei ferri chirurgici, propone l’acquisto della tavola all’Accademia di belle arti di Ravenna per la Galleria.
La Provincia, che partecipa con il Comune alla gestione della locale Accademia, si affretta a declinare ogni onere per indisponibilità finanziaria, pertanto l’Accademia si rivolge al prefetto, che all’epoca dei fatti assicurava gli interessi patrimoniali di un’istituzione di natura consortile, per chiedere un’ultima valutazione al Ministero. Il direttore generale Romanini invita il restauratore Venceslao Bigoni di Modena a visitare e riferire. Il pronunciamento è ampio e circostanziato: “Dietro invito della Signoria Vostra Illustrissima ho visitato il quadro del Rondinelli esistente in una sala dell’Ospedale di Cervia. Il quadro rappresenta la Vergine col Putto in trono, avente alla sua destra santa Caterina a sinistra san Sebastiano. Il guasto che ho riscontrato in questo dipinto è molto. Al bordo del trono vi sono zone di colore sollevate e parti sono cadute, male questo che si riscontra in altri punti del quadro: la tavola non ha armatura e un’asse scollata; a sinistra manca l’asse esterna quindi il quadro è incompleto.
 
San SebastianoLa figura di santa Caterina a mio vedere è tutta ridipinta: quantunque la testa di questa santa sia abbastanza bella tuttavia non è del Rondinelli; il piegare poi delle vesti di questa figura è indubbiamente d’altro pittore e anche poco provetto in arte. Di più, ho scorto sotto il colore una traccia di aureola che non corrisponde alla testa di detta santa il che avvalora quanto ho detto di sopra. Dire che sia un pentimento dell’artista bisognerebbe supporre che il Rondinelli avesse dipinta la figura che ora si vede o, se dipinta da uno scolaro, l’avesse approvata il che è impossibile, quindi ripeto, a mio vedere questa figura è ridipinta.
Dalle osservazioni fatte posso accertare che non fu raschiata la figura dipinta dal Rondinelli ma non posso dire che questa fu ridipinta per cambiar figura (come in molti casi si è riscontrato) o perché l’originale fosse rovinato. Il restauro di questo quadro costerà circa 700 lire” .

L’Accademia di belle arti di Ravenna delibera l’acquisto e la pala di Cervia entra nelle collezioni della Galleria prima che si chiuda il 1895. La notizia rimbalza al Ministero; il superiore Ministero chiamato ad esprimersi riguardo alla compravendita; e Giulio Cantalamessa, alla direzione delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, intercetta l’opportunità di documentare, a Venezia, la figura di Rondinelli che, a quanto riferisce Vasari, si era conquistato una posizione di prim’ordine nell’organizzazione della bottega di Giovanni Bellini nel quinquennio dell’alunnato, vale a dire, almeno, dal 1490 a tutto il 1495. Cantalamessa propone uno scambio con Ravenna: un Ingoli per un Rondinelli. Nel piano museografico significava una presenza più importante per uno dei migliori collaboratori di Bellini, non ancora adeguatamente valorizzato nelle Gallerie veneziane, una presenza che valeva, sull’altare della memoria, un dipinto del ravennate Matteo Ingoli; da scegliere fra due; che nel Veneto si era conquistato larghi favori grazie alle simpatie del figlio di Paolo Caliari, il Veronese. Nel 1902, al termine della triangolazione tra Ricci, Cantalamessa e il Ministero, la pala di Cervia parte per Venezia, mentre a Ravenna arriva L’Ultima Cena con sant’Apollinare e il beato Lorenzo Giustiniani di Ingoli: lo scambio viene attivato grazie all’istituto del “deposito”, senza implicazione alcuna sui vincoli di proprietà, e pertanto in via temporanea. Il piano di scambio, con la scelta delle opere, fu attentamente ponderato per valutare la soluzione meno traumatica agli effetti della spoliazione. In questo Ricci esercitò il ruolo ispettivo con alta sorveglianza nei confronti del museo ravennate a tutela, e cautela; della Galleria dell’Accademia nonché dell’amata città. E la pala di Cervia, anche in ragione dello stato “deplorevole” e del recente ingresso, rappresentava, nel corpus ravennate di Rondinelli, la “perdita” meno dolorosa e, tutto sommato, adeguatamente risarcita. La questione del risarcimento, con l’acquisizione di un Ingoli, doveva configurarsi come conditio sine qua non se, nel 1907, al termine del riordino di Brera, Corrado Ricci si esprime con piena disapprovazione nei confronti dell’Amministrazione ravennate che mostra completo disinteresse al recupero patrimoniale dei dipinti requisiti dal Ministero dell’Interno il 26 aprile 1811: “Pure, tra i ventiquattro dipinti, che Brera dovette rimandare nel 1816, si trovavano belle cose. Bologna riebbe opere di Francesco e Giacomo Francia, d’Innocenzo d’Imola, d’Annibale e di Lodovico Carracci, del Tiarini, di Guido, dell’Albani e del Gessi; Ferrara del Garofalo; Urbino del Barocci; Cento del Gennari; Castel Bolognese del Guercino, Rimini di Simone Cantarini; Forlì del Guercino e di Guido; Cesena del Francia; Faenza di Guido; Pesaro del Barocci. Alcune d’esse ripresero posto nelle chiese, ma per la maggior parte entrarono nelle Gallerie cittadine.
E gran torto ebbe allora Ravenna di non farsi viva a domandare il suo!
Ora essa avrebbe, oltre ai principali dipinti de’ suoi pittori come il Rondinelli, i Cotignola, il Longhi, anche il Martirio di S. Vitale del Barocci e quell’insigne capolavoro dell’arte ferrarese che è la Pala Portuense di Ercole Roberti!” . C’è motivo di ritenere, perciò, che, nel vasto progetto di riassetto istituzionale dell’Italia post-risorgimentale e di riordino delle Gallerie nazionali, di cui Corrado Ricci è stata figura centrale , lo scambio tra Ravenna e Venezia, con il sigillo del doppio deposito, dovesse trovare ampio sostegno nell’ambito della riflessione museografica.
L’impegno di Cantalamessa nel voler potenziare la presenza di Rondinelli altrimenti scarsamente documentato nelle Gallerie dell’Accademia, trovava legittimazione nella consapevolezza di partecipare a quel processo di svecchiamento del sistema museale italiano a cui si andava mettendo mano attraverso lo studio sistematico delle fonti, delle bibliografie, e ancora attraverso le ricognizioni critiche e attribuzionistiche in una prospettiva scientifica orientata a riorganizzare la collezione, principesca o civica che fosse nei suoi fondamenti, secondo un criterio di enucleazione per scuole e centri; e conseguenti periferie; in linea con la museografia europea. Il caso della pala di Cervia, pur non avendo alcuna pertinenza con la città, offriva l’opportunità di integrare la presenza di un autore ancora troppo in ombra per avere assistito; come è lecito ritenere; Giovanni Bellini nelle decorazioni promosse da Agostino Barbarigo per Palazzo Ducale, al suo trionfale rientro dalla conquista di Cipro. Per contro, la privazione di un Ingoli non doveva apparire gran cosa per le raccolte veneziane se a prevalere fu l’opportunità di documentare un autore ravennate nella città d’origine che di lui non conservava testimonianza alcuna.
Le riflessioni museografiche che hanno condotto al doppio scambio, sebbene temporaneo, hanno determinato la storia conservativa della pala di Cervia che ne è seguita. Si apprende in un contributo di Ricci del 1919 che doveva trattarsi di un deposito breve: “Tavola assai malandata (e perciò tenuta finora nel depositorio) … Sarà presto rimandata a Ravenna” . A queste date la tavola non aveva ancora subìto interventi di restauro, nonostante l’interessamento dell’Accademia ravennate nell’istruttoria che precede l’acquisto. Ceduta attraverso lo strumento giuridico del “deposito”, la tavola viene a sua volta collocata in deposito e qui conservata.
Le condizioni in cui la descrive Sandra Moschini Marconi nel catalogo delle Gallerie dell’Accademia di Venezia del 1955 non sono mutate e la fotografia conferma puntualmente la descrizione offerta da Venceslao Bigoni .
Il primo intervento di restauro, circoscritto, parrebbe, alla sola carpenteria lignea, viene effettuato nel 1962, come si apprende dal promemoria di Enrico Noè per la riconsegna della tavola nel 2005: “Dalla scheda di restauro n. 372 risulterebbe che l’intervento fu eseguito nel 1962 da Antonio Lazzarin. Si usa il condizionale a motivo del silenzio serbato dalla scheda sui procedimenti e sui materiali usati dal restauratore; la scheda è priva, inoltre, di documentazione fotografica” ; allo stesso intervento sono da ricondurre, “con tutta probabilità, le operazioni di risanamento effettuate sul retro del supporto: ‘svezzatura’ ossia rinforzo con cunei lungo le linee di fessurazione; chiusura con inserti lignei delle lacune del legno passanti anche sul recto del dipinto; posa di tre traverse scorrevoli collocate in senso trasversale alle fibre del legno originale” . Poco oltre Noè si sofferma sulla tecnica pittorica dicendola “accurata”, e la preparazione “ottima e spessa”.
Aggiunge poi le considerazioni di Giulio Cantalamessa riferite in una lettera del 14 giugno 1901: “V’è una Madonna in trono col putto, tra una santa martire e S. Sebastiano. Ma la santa è ridipinta tutta ad imitazione di una figura di Iacopo Tintoretto, ch’è nel Palazzo Ducale di Venezia; si vedono vagamente sotto alle tinte le tracce di un’altra figura, ch’era affatto diversa. Il resto è genuino, ma logoro alquanto e mal tenuto; né mancano scrostature, che offendono il fondo e, in parte, certe bizzarre grottesche che adornano la predella del trono. Si aggiunga che le tavole componenti la pittura sono molto disgregate” .
 
Madonna con BambinoQuando la tavola passa all’esame di Marco Sarti, direttore operativo per Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, i primi rilievi in ripresa ad infrarosso effettuati presso il Laboratorio di microchimica e microscopia coordinato da Rocco Mazzeo avevano già confermato la presenza, sotto la santa, di san Rocco, per altro identificabile a luce radente per l’affiorare del bastone del pellegrino e dei calzari. “Il problema della vastità di tale ridipintura, afferma Sarti, non appare però risolversi nella sola figura della santa: non chiari sono i confini di discontinuità dei livelli cromatici e anche solo osservando la porzione di pittura raffigurante il cielo e le due aperture di paesaggio ai fianchi del gruppo centrale della Vergine e del Bambino in trono oltre a verificarne l’incongruità stilistica con la datazione dell’opera, si identifica chiaramente la presenza di uno strato più antico di colore in molte parti costituito da una stesura di foglia d’oro applicata a missione.
La posizione e l’estensione di tali più antichi livelli non sembrano potersi collegare all’attuale conformazione spaziale della tavola e, a nostro avviso, dovranno essere meglio indagate con ulteriori analisi scientifiche” .
La diagnosi è perentoria: “Tutte le informazioni raccolte nell’ambito di queste indagini dovranno accrescere esclusivamente la conoscenza della storia dell’oggetto essendo in questa fase delle conoscenze escluso il recupero integrale del più antico intervento pittorico” .
Il pronunciamento è, come si diceva, perentorio ma contiene una valutazione di provvisorietà fondata sulla scarsità di notizie storiche e sull’altrettanto evidente presenza di palinsesti che impongono un codice rosso per la cautela. La perizia formula un protocollo di intervento “ferma restando la necessità di adeguamento a quanti ulteriori elementi chiarificatori emergessero nel corso dei lavori” .
Alle considerazioni finali è riservata l’indicazione di effettuare “microprelievi di materia pittorica per l’esecuzione di una serie di stratigrafie mirate, lasciando ai tecnici la scelta di ulteriori indagini diagnostiche (RX)”. Nella fase di integrazione pittorica si raccomanda di tenere conto della discontinuità tra la quota originaria e il rifacimento iconografico più tardo (“non si dovrebbe escludere la possibilità di ricorrere ad una integrazione non imitativa delle lacune escludendo in tal modo il ricorso a colori a vernice impiegati a corpo notoriamente non stabili dal punto di vista cromatico”), con il beneficio, beninteso, della verifica “(qualora non risultasse assolutamente stridente)”.

Le ricerche archivistiche per la ricostruzione della storia anteriore alla compravendita, complicate dalla difficoltà nel ricucire dati in parte dispersi a seguito della riedificazione settecentesca di Cervia, hanno dovuto tener conto di un impianto compositivo costruito intorno alle figure dei santi Rocco e Sebastiano, come nella pala di Longana, Sant’Apollinare in trono fra i santi Sebastiano e Rocco, licenziata da Baldassarre Carrari prima del 1516. Gli aggiornamenti sullo spoglio d’archivio confermano la necessità di mantenere la santa, con tutte le discordanze e dissonanze che ne derivano, non solo nella sua valenza estetica, ma, anzitutto, come documento della traccia mnemonica, in altri termini, come la scatola nera della sua storia più recente. Dalla santa perciò occorreva passare per cercare una risposta, nell’esiguità di appigli documentari, al cambiamento iconografico che il passaggio ad altro altare poteva ben giustificare. Le indicazioni di Stefano Tumidei orientano le ricerche per correggere l’attribuzione a Nicolò Rondinelli nella direzione di Baldassarre Carrari e suggeriscono l’ipotesi che il dipinto potesse essere stato realizzato per la cattedrale di Cervia. Come è noto dell’antica cattedrale non esiste più traccia dopo la traduzione di Cervia e perciò, escluse le rilevazioni sugli altari e le ancone per verificarne l’eventuale compatibilità, le ricerche si indirizzano in ambito meramente archivistico seguendo la pista degli obbligati passaggi di proprietà in via ascendente .

I primi saggi di pulitura intanto evidenziano l’urgenza di approfondire gli esami diagnostici per chiarire le caratteristiche stratigrafiche in modo da valutare con esattezza la quota a cui attestarsi per la pulitura. In Laboratorio di microchimica e microscopia viene effettuata la ripresa in riflettografia, mentre alla Diagnostica per l’Arte Fabbri di Davide Bussolari, di Campogalliano, viene affidata la radiografia . I referti non lasciano dubbi e rivelano una storia tormentata fatta di ripensamenti e riadattamenti. Dalla riflettografia la figura di san Rocco appare in ottimo stato di conservazione e, come aveva correttamente ipotizzato Venceslao Bigoni, intatta nell’epidermide pittorica: il volto restituisce i dettagli con ogni evidenza a partire dall’occhio affiorante tra le pieghe della capigliatura della santa; il mantello ingombra buona parte del paesaggio sovrapponendosi con il lembo estremo alla modanatura del trono; il bastone del pellegrino è saldamente impugnato con la sinistra mentre la destra indica la ferita sulla coscia; sulle spalle scende il cappello e sul petto è appuntata una conchiglia bivalve; i calzari loricati mostrano il virtuosismo degli ornati all’antica.
Benché non del tutto inattese, le condizioni del santo sono di sorprendente integrità e tali da ammettere l’aspettativa di una scopritura. Quel che invece era del tutto inatteso e al di fuori di ogni previsione è quanto ha portato in luce la radiografia con l’esame degli strati più profondi: qui nulla è come sembra e nessuno sta dove deve stare.
Gli ingombri delle figure sono sostanzialmente coincidenti per un impianto compositivo che gravita intorno al trono a esagono fendente, la parte più integra sebbene frammentaria, ma rivelano altri personaggi. Sotto san Rocco è ben visibile il volto di un vescovo con capo mestamente reclinato; sotto san Sebastiano lo stesso santo gode di altra postura più conforme all’ingombro che doveva avere prima della mutilazione della tavola, con il collo in torsione verso il lato esterno del dipinto; sotto la Madonna con il Bambino appare un vescovo in trono nell’atto di impartire la benedizione sulla parola del Verbo a cui allude il Libro esposto alla devozione.
La prematura scomparsa di Stefano Tumidei non ci ha consentito di condividerne i risultati che aprivano nuovi orizzonti all’interpretazione e mentre Malaigia, passata alla guida di Roberto Balzani, infittiva le ricerche nell’ambito delle strutture assistenziali e delle congregazioni di Carità, chi scrive si è assunto l’onere, certo non facile, di dare voce alla nuova attribuzione.
 
Madonna con Bambino e SantiNel frattempo le attenzioni di Malaigia, che non avevano registrato traccia del dipinto negli inventari napoleonici insinuando il sospetto di una deliberata volontà di sottrarre il bene all’istituto del vincolo per non precluderne la vendita, si soffermano su un dato nuovo.
L’Ospedale civile di Cervia afferiva alla Congregazione di Carità che aveva ereditato l’Ospedale dei Poveri Infermi di San Giorgio, a sua volta di pertinenza dell’omonima chiesa di San Giorgio, sede degli Agostiniani. Presso la chiesa è documentato un altare della Beata Vergine del Soccorso che, per le prerogative devozionali, poteva adeguatamente essere accompagnata da san Rocco e san Sebastiano, ma, se si fosse sostituito uno dei due santi con santa Caterina d’Alessandria, protettrice degli Agostiniani, il dettato devozionale non sarebbe risultato compromesso con il beneficio, semmai, di un mediatore celeste di tutto favore.
Ci sono dunque buoni motivi per ritenere che la santa sia l’esito del riattamento della tavola ad altro altare, ovvero l’altare della Beata Vergine del Soccorso in San Giorgio a Cervia.
La carenza degli attributi della santa consigliano di non sciogliere la riserva, in ogni caso i pochi indizi disponibili - la palma del martirio, la giovane età, l’acconciatura principesca, la veste purpurea - non sono in contraddizione con l’ipotesi che si tratti di santa Caterina d’Alessandria; le lacune della zona inferiore poi non escludono un frammento di ruota dentata proprio ai piedi della santa. In questo caso l’esigenza di un trasferimento può aver consigliato di “rinfrescare” la tavola con una sostituzione iconografica da cui dipendono i raccordi che si estendono nel paesaggio e per buona parte del cielo. Dall’analisi stilistica delle diverse quote si evidenzia una sostanziale continuità tra quelle più antiche, e una chiara discontinuità tra queste e la redazione della santa.
L’ipotesi, verificata in Laboratorio di microchimica e microscopia, è stata confermata dal rinvenimento di una coltre di sporco che si interpone come diaframma esclusivamente tra la quota antica e la santa .
Se i presupposti di un progetto di restauro non si circoscrivono al mero ambito del risanamento strutturale, allora ciò significa che ci si appella ad un sistema operativo integrato messo a punto da una squadra scientifica, un sistema che si configuri come autentico momento conoscitivo intorno alla memoria storica, ma non di meno intorno agli aspetti tecnici, tecnologici e procedurali che debbono informare il restauro, alla cui sapienza è affidata la restituzione materiale delle intuizioni che ispirano l’ipotesi di lavoro. E poiché l’intervento di restauro è di per sé un atto critico di interpretazione dell’opera, tale da ammettere una pluralità di risposte, ecco che l’avanzamento delle acquisizioni ha richiesto una verifica delle linee-guida espresse dalla direzione operativa in via preliminare.
La perfezione conservativa di san Rocco e le novità emerse in sede iconografica hanno chiarito l’estensione delle alterazioni subìte dalla redazione più antica riproponendo, d’urgenza, la domanda sulla quota a cui attestarsi. Le consultazioni, condotte sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza per il patrimonio artistico storico ed etnoantropologico per le province di Bologna, Ferrara, Forlì-Cesena, Ravenna, Rimini, sono approdate alla comune constatazione di una tale ricchezza pittorica negli strati più profondi, non compromessi da abrasioni, da legittimare l’ipotesi di portare in luce la quota licenziata dall’autore, con esiti di una più efficace coerenza compositiva e di una più soddisfacente qualità. Questa soluzione tuttavia ancora presentava lo svantaggio di una scelta irreversibile che avrebbe rimosso, oltre ad una quota del dipinto - posto che fosse auspicabile - tutti quegli aspetti di palinsesto che potevano perfezionare le ricerche sulla sua storia attraverso la testimonianza del manufatto come documento “parlante”.
Si è riproposto perciò il termine metodologico individuato da Marco Sarti, “in questa fase”, sottolineando le coordinate contingenti delle acquisizioni a cui è subordinato l’intervento di restauro per la salvaguardia della sua integrità storica.
Ancora una volta la provvisorietà diventa elemento fondante per la riflessione, che trova rinforzo nella necessità museografica di presentare, “in questa fase”, appunto, il dipinto sostanzialmente inedito che, nelle collezioni ravennati, non era ancora stato oggetto di studi, né poteva essere esposto al pubblico.
Il progetto si delineava con precisione crescente come lo start ad un processo in divenire che non si sarebbe esaurito con la fine lavori e il rientro della tavola in collezione.
La consapevolezza della transitorietà dell’intervento mirato a non pregiudicare l’integrità materiale del dipinto e altresì a non precluderne ulteriori sviluppi, ha contribuito a fissare, in corso d’opera, nella salvaguardia dell’ultima “pelle”, custode di tutte le anteriori, il limite ultimo e ancora una volta perentorio dell’operatività in questa precisa fase in cui molto resta in attesa di una risposta.

Seguendo l’ipotesi formulata da Stefano Tumidei, la tavola, attribuita a Nicolò Rondinelli, non poteva eludere il confronto con la pala di Longana, opera autografa di Baldassarre Carrari e dunque punto fermo per la comparazione stilistica nonché iconografica, ora che la radiografia aveva portato in luce il tema originario, ovvero la glorificazione di un santo in trono fra i santi Rocco e Sebastiano, esattamente come nell’impianto di Longana.
Alla luce della ricostruzione di Malaigia, che individua nell’altare della Beata Vergine del Soccorso in San Giorgio il passaggio intermedio, diventa altamente plausibile che il luogo della provenienza prima della tavola sia da individuare nella cattedrale di Cervia, così come del tutto pertinente è l’ipotesi che il santo in trono sia da identificare con san Paterniano vescovo, patrono di Cervia insieme a san Bartolomeo.
La stretta relazione fra i due dipinti, simili anche nel formato, porta a individuare, nella pala di Cervia, tratti stilistici a carattere fortemente sperimentale non ancora pervenuti ad una più matura sintesi, che consigliano una datazione anteriore a quella di Longana, ritenuta l’ultima prova di Carrari. Un indizio tuttavia lega la tavola, dirimendo ogni pur legittimo dubbio attributivo, al nome di Baldassarre Carrari, vale a dire la compresenza in una medesima personalità di aspetti culturali eteronomi e, per molti versi, confliggenti. Si trattava di far confluire in un unico autore esperienze della civiltà prospettica forlivese con attenzioni tonali mutuate dalla cultura lagunare di Giovanni Bellini di cui Nicolò Rondinelli era mediatore a Ravenna, non senza uno scalo presso la corte estense. E un solo nome poteva rispondere a questa identità per molti versi paradossale.
Studiando la tavola con attenzione ermeneutica nei confronti di Stefano Tumidei, ho inteso che dovesse essere proprio questa la marca stilistica che lo aveva condotto nella direzione di Baldassarre Carrari.
L’accostamento delle sfingi alate, il modulo della grottesca che compare nel trono di entrambi i dipinti, porta a risolvere definitivamente il confronto in favore del pittore forlivese, formatosi nell’ambiente di Melozzo e di Palmezzano e trasferitosi a Ravenna per nuove fortune all’alba del secolo nuovo.
ParticolareAnche in sede di analisi in Laboratorio di microchimica e microscopia i referti relativi al disegno preparatorio confermavano , per quanto riguarda l’impalcatura architettonica del trono, la traccia di una persistenza forlivese come si poteva ben ricavare dal tratto inciso e continuo fin oltre il limite stesso del trono, realizzato grazie all’utilizzo di riga e squadra, secondo le prescrizioni della cultura prospettica che trovava nella figura di Melozzo l’espressione di quel vertice di sapienza il cui fondamento teorico riposa nei trattati di Luca Pacioli.

Come spesso accade nei dipinti su tavola realizzati nella stagione compresa tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo, in Romagna, le carpenterie sono piuttosto povere e i disegni preparatori accusano insicurezze e ripensamenti. Nel caso delle opere di Carrari, questa modalità si presenta con una certa insistenza e le condizioni di malessere del supporto si riflettono nella precarietà della pellicola pittorica sottoposta, in questo caso, alle tensioni imposte dalla traversatura del restauro Lazzarin.
Dopo la rimozione della parchettatura che determinava una pericolosa rigidità nel supporto, con il conseguente rischio di caduta di pellicola pittorica, il Laboratorio del restauro di Ravenna ha messo a punto una struttura pensata per contrastare la naturale tendenza delle assi allo spanciamento ma con la flessibilità dovuta.
La nuova parchettatura ripete il modulo delle tre traverse sostituendo tuttavia la gabbia preesistente con elementi passanti in fibra al carbonio che assicurano necessaria elasticità .
Al termine del risanamento strutturale è seguita l’operazione di integrazione pittorica a ritocco con selezione al tratto verticale, impostata secondo le linee di indirizzo espresse dalla direzione operativa. In sede di verifica, tuttavia, la stretta contiguità tra le lacune delle parti più integre - le specchiature del trono a grottesca, con quelle relative ai rifacimenti posteriori - la zona inferiore della veste e i piedi della santa, esponeva la scelta metodologica di un doppio registro alla difficoltà nel decodificare correttamente un dato retinico di per sé incerto e dai confini confusi. Si è proceduto perciò a opportuni correttivi che, nel rispetto della compresenza dei principi di “continuità” e “discontinuità”, offrissero al dato retinico adeguato supporto per una corretta interpretazione.
È in questa fase che si è scelto di ricomporre, su un piano ribassato e completamente allusivo, l’impostazione dei piedi con calzari e il bastone di san Rocco, in continuità con altri elementi del santo che dalla superficie sottostante affiorano prevalendo come per supremazia chimica. Se il risultato conclusivo attutisce i “salti” tra i diversi trattamenti che avrebbero dovuto assicurare la restituzione a colpo d’occhio dei dislivelli, consente però una più efficace ricomposizione di quel “mosaico” che al dato retinico sarebbe risultato confusamente frammentario.
Grande prudenza è stata riservata, infine, al trattamento finale allo scopo di non appesantire la superficie pittorica in prospettiva di futuri e diversi ragionamenti . Con il ricomporsi, almeno in parte, delle peripezie di quest’opera, si pongono le premesse per accogliere la tavola, al suo definitivo rientro in città e in collezione permanente, con un’esposizione salutata dai coevi dipinti di Rondinelli, Carrari e dei Belliniani in Romagna. E mentre Claudio Spadoni, alla regia dell’iniziativa, si appresta a chiudere, “nella fase attuale”, una pagina museografica che si era aperta allo scadere del XIX secolo con la firma di Corrado Ricci, l’operazione “pala di Cervia” giunge in porto al termine di un complesso piano di intervento che ha inteso superare il principio di “selezione”  che le esigue contingenze di un dipinto su tavola realizzata in Romagna alle soglie del Cinquecento, dai caratteri ancora fortemente sperimentali, poteva pur ispirare, con l’intelligenza di una “scientifica” che facesse appello a tutte le risorse, nessuna esclusa, per un quadro quanto più articolato di conoscenze.
In questo senso riteniamo si debbano riconoscere, alla prassi operativa, le considerazioni autorevolmente espresse da Cristina Acidini Luchinat:
  • “se un valore percorre la civiltà occidentale, e in particolare quella italiana;
  • se conoscenze specialistiche si sono sviluppate, e continuano ad evolversi;
  • se finanziamenti mai sufficienti, ma comunque significativi vengono messi a disposizione;
ebbene tutto questo trova la sua espressione e giustificazione nel massimo rispetto per la materia - la materia fisica, tangibile, tridimensionale - delle opere d’arte. Tutti i loro possibili contenuti, significati e valori espressivi sono indissolubilmente legati ai materiali costitutivi, per cui ogni alterazione, limitazione o perdita diviene immediatamente e senza possibilità alcuna di recupero una alterazione, una limitazione ed una perdita di questi stessi contenuti, significati e valori.

 

Alberta Fabbri
Museo d’Arte della Città di Ravenna

 

 

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ultima modifica 2024-02-16T11:07:01+02:00
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